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QUI POSTULAZIONE #17 ▪ Ricordando Fratel Felice Tantardini

Felice Tantardini, originario di Introbio nella lombarda Valsassina, è stato un missionario del Pime che per sessantanove anni ha vissuto in Myanmar, ancora Birmania quando vi giunse ventiquattrenne nel 1922. Non un sacerdote ma un “fratello cooperatore”, come allora erano chiamati i laici consacrati del Pontificio Istituto Missioni Estere che, accogliendolo nel 1921, gli permise di aiutare con la sua maestria nell’arte del ferro quella parte dell’Asia dove è morto il 23 marzo 1991 ed ancora è ricordato come il Fabbro di Dio.

 

Basso di altezza, il che lo “confondeva” tra la popolazione per la quale ha lavorato ricevendo grande stima, è stato “alto” nel testimoniare una vita totalmente dedicata a Dio e ai fratelli. Per essi è stato un faro spirituale, vero esempio del cammino verso la santità tanto da essere riconosciuto “Venerabile” nel 2019 durante la Causa di beatificazione e canonizzazione avviata nei suoi confronti dallo stesso Pime.

Fratel Tantardini ha vissuto al servizio della Missione con totale donazione di se stesso, non solo come fabbro, ma anche quale falegname, idraulico, carpentiere, sacrista o catechista. Il suo lavorare, che viveva come “passione indomabile”, era solo per il Signore tanto da fargli affermare: «Per me il lavoro è una passione, grazie al buon Dio mi è indifferente sia il luogo come le persone. Il lavoro lo faccio per il buon Dio, è da lui che aspetto la pensione dopo la mia morte». Per questo, fintantoché la salute glielo permise, trovò naturale prestare aiuto alle missioni anche di altri istituti.

 

Grande apostolo tra le montagne e le valli delle diocesi di Taungngu e Taungyyi, egli, l’uomo dell’incudine e del martello, usati in compagnia della fedelissima pipa, è stato anche l’uomo del Rosario. Nessun nuovo lavoro intrapreso senza prima averlo recitato e offerto a Maria assieme all’accensione di una candela; mai uno spostamento da un villaggio all’altro fatto senza sgranare la corona mariana, nessun giorno in cui non abbia recitato le centocinquanta Ave Maria. La preghiera mariana per eccellenza difatti, fin da bambino lo legava strettamente alla Madonna, la sua “mamma celeste” che, come affermò, «mi ha sempre protetto con cura tutta particolare e mi ha liberato da tanti pericoli sia materiali che morali, e solo in Paradiso, ove spero di andare, potrò ringraziarla meno inadeguatamente».

 

Definito “amico di Dio, amico degli uomini e nemico di nessuno”, Tantardini ha vissuto la quotidianità col sorriso sempre sul volto perché era “felice” di nome e di fatto all’insegna di quel nomen omen di latina memoria. Felice in modo particolare di seguire la volontà del Signore anche dinanzi alle privazioni di cui scrisse: «la mia passione per i lavori specialmente di ferro, non potendo più stare nelle mie mani è quasi completamente scomparsa e si è riversata più verso i poveri più bisognosi e, materialmente e spiritualmente». Oppure nell’obbedire agli ordini dei suoi superiori, che spesso erano vere dimostrazioni di affetto come quando il vescovo di Taungyyi, constatato il calo della vista e l’aumento della sordità, lo invitò a limitarsi alla sola preghiera. Occasione che lo portò ad appuntare: «Ora invece è il tempo di pregare il buon Dio e la Madonna molto anche per me per ottenere la grazia di una totale conversione per me e anche per gli altri».

 

Della sua avvincente e spiritualmente esemplare vita rimane traccia nelle memorie autobiografiche redatte su invito del suo vescovo e pubblicate nel 1972 con l’emblematico titolo di “Il Fabbro di Dio”: un inestimabile dono come le chiese, le case e le scuole che ha realizzato in quella Birmania a lui cara dove la sua tomba continua ad essere meta di pellegrinaggio a Paya Phyu.

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